26 maggio 2010 1

Vis-à-vis #26: Alessandro Calabrese

pubblicato da Sara in Artisti, Fotografia, Interviste

Alessandro Calabrese è un ragazzo trentino trapiantato a Venezia. Si è avvicinato alla fotografia attraverso le diapositive realizzate da suo padre e, da autodidatta, porta avanti da tre anni la sua ricerca. I suoi soggetti sono prevalentemente femminili anche se a interessarlo è piuttosto un’indagine sullo spazio e sul rapporto che l’individuo è in grado di instaurare con esso, complici gli studi in architettura per il paesaggio giunti quasi al termine. Riponendo fiducia nella creatività diffusa attraverso la rete, Alessandro trae ispirazione dall’esperienza  per praticare il suo personale “esercizio delle distanze” (titolo, fra l’altro, della sua ultima mostra), così da produrre immagini caratterizzate da una grande attenzione per la composizione.

Chi è Alessandro Calabrese? Dove e quando è nato? E dove si trova ora?
Sono un ragazzo molto magro e con i ritmi biologici sfasati nato a Trento nel novembre del 1983, attualmente vivo a Venezia dove frequento il corso di laurea specialistica in architettura per il paesaggio.

Qual è la tua formazione e come ti sei avvicinato alla fotografia?
La mia unica esperienza fotografica, fino a circa 3 anni fa, è stata quella di fissare la parete più bianca di casa dove mio padre, da quando ho memoria, ha proiettato le diapositive che scattava con la sua Fujica. Mi sono avvicinato in maniera più conscia a questo mondo grazie ad un corso di storia della fotografia all’ università, tenuto dal professore Angelo Maggi, in cui veniva richiesta, oltre allo studio teorico, anche una piccola esercitazione pratica prendendo spunto da un autore presentato a lezione. La mia scelta ricadde, molto istintivamente, su Man Ray e sui suoi lavori che riguardavano soprattutto la moda e il ritratto. Quando mi trovai in mano gli sviluppi di quei primi, ammetto piuttosto imbarazzanti, scatti fatti ad un’amica capii che forse avevo trovato qualcosa di cui, per una volta, non mi sarei stancato in fretta. E in effetti così è stato, sempre fedele all’unica parola che mi rappresenta: autodidatta.

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Chi i tuoi maestri?
Ho sempre avuto un grande interesse per l’ essere umano nel senso più ampio del termine quindi tutto quello che mi ha condizionato in questi ultimi anni è il pensiero altrui, declinabile in qualsiasi forma, dalla più astratta alla più concreta. Non riuscirei a fare degli esempi specifici senza tralasciare qualcuno o qualcosa perché introietto in maniera vorace e quasi mai razionalizzo, quindi posso dire che la mia ispirazione la trovo nell’esperienza di uomo tra gli uomini, alimentato da una forte curiosità e, spero, umiltà nel volere imparare dagli altri quanto più mi è concesso. Sicuramente il combustibile iniziale è stato il mio amico e compagno di stanza Alfonso che ben prima di me si era avvicinato alla fotografia regalandomi le nozioni tecniche di base e la fiducia necessaria per credere in quello che facevo, poi navigando in rete ho conosciuto moltissimi giovani fotografi tanto sconosciuti quanto meritevoli che mi hanno educato, attraverso uno scambio di opinioni verbale o semplicemente lasciandosi osservare, al pari di maestri da tutti riconosciuti e conosciuti come Philip-Lorca di Corcia, William Eggleston e Stephen Shore passando per la scuola italiana del secondo novecento cui faceva capo Luigi Ghirri fino a colui che ultimamente più mi ispira e che fotografo non è stato, Edward Hopper: nelle loro diversità tutti importanti allo stesso modo per la mia crescita. Così come lo sono state le letture di personaggi quali Roland Barthes con “Camera chiara”, Italo Zannier con “L’occhio della fotografia” fino ad Arturo Quintavalle con “Muri di carta”.

Cosa vuoi comunicare attraverso le tue fotografie?
Se inizialmente mi è venuto facile e naturale approcciarmi alla street photography cercando di immortalare nella maniera più obiettiva possibile il quotidiano che mi circondava, in un secondo momento ho avuto la presunzione di ricercare prima il gesto artistico concentrandomi su fotografie che puntualmente andavo a stravolgere in postproduzione con l’uso di programmi grafici, aggiungendo e togliendo al reale, distorcendolo in modo da dare vita ad un mondo che fosse esattamente come io lo volevo vedere, poi il gesto estetico alla ricerca del bello con scatti riconducibili ad una sfera maggiormente glamour. Oggi condivido il pensiero di Mario Cresci quando dice che “ogni fotografia è insieme documento, analisi, opera” e da parte mia, condizionato sempre più dagli studi architettonici, mi limito ad indagare lo spazio e il rapporto che il soggetto umano si trova ad avere con esso, non mi importa far passare un messaggio o comunicare un’emozione, nei miei scatti cerco un’armonia geometrica, una sorta di equilibrio esistenziale, servendomi tanto di un soggetto animato quanto di un soggetto inanimato, dopodiché lo rendo visibile a chi come me ha voglia di interrogarsi.

Descrivi il tuo lavoro: scatti in analogico o in digitale? E perchè?
Tutti gli scatti che pubblico online sono fatti in digitale con una Nikon D200, perché dopo un brevissimo rodaggio con una reflex 35 mm sono passato, fin dall’inizio, al mondo digitale, più per il fatto che mi affascinava la novità tecnologica unita alla possibilità del fotoritocco a computer, in secondo luogo mi sembrava più semplice e veloce imparare dignitosamente. Inoltre mi sono cimentato nelle polaroid, nelle usa&getta che trovo divertentissime e ancora, assieme ad Ylenia, abbiamo comprato una Holga 135 con la quale facciamo delle semplicissime foto alla nostra vita sballottata tra Venezia, Verona e Trento ma senza alcuna pretesa. Di recente sento una forte, direi totale, esigenza di passare all’ analogico, per la precisione ad una macchina formato 6×6. Certo il digitale, soprattutto quando ti viene commissionato un lavoro, si può considerare vitale oggi ma, per quanto riguarda i miei lavori personali, ho adocchiato una Hasselblad 500C che presto cercherò di portarmi a casa. Ultimamente il mio senso di frustrazione mi costringe ad adattare in postproduzione quasi tutte le mie fotografie digitali al formato quadrato ma, nonostante non possa farne a meno, io per primo la trovo una cosa poco coerente. Necessito di una svolta che mi permetta di chiudere un ciclo e aprirne un altro, più maturo e completo.

Quanto tempo passa dall’ideazione alla realizzazione di una tua fotografia? Ragioni per singoli scatti o ogni volta pensi già a quello che potrebbe affiancarlo?
La cosa è assolutamente variabile. Dal momento che ultimamente il contesto ha sempre più importanza nelle mie fotografie, può succedere che una volta trovato un luogo interessante può passare molto tempo prima che io mi ci rechi realmente per fotografare, anche diverse settimane, durante le quali nasce l’idea. Altre volte mi ritrovo inaspettatamente all’interno di quelle che diventano poi le mie ambientazioni quindi la realizzazione delle fotografie avviene contemporaneamente allo sviluppo dell’idea. Sto imparando a ragionare secondo dei temi che coinvolgano più scatti perché ritengo sia l’unico modo per rappresentare la mia ricerca focalizzata su quello che mi piace chiamare “esercizio delle distanze”. Ho superato il periodo in cui non uscivo di casa senza la mia Nikon, oggi decido a priori in quali giorni fotografare quindi rientrare a casa dopo un giorno dedicato alla fotografia con una serie di scatti singoli per me equivale ad un mezzo fallimento.

Ylenia, Marie, Lourdes, Sara. I tuoi soggetti sono (quasi) esclusivamente donne. Vuoi raccontare loro o il tuo sguardo sul mondo femminile?
Senza ombra di dubbio ritrarre soggetti femminili mi ha soddisfatto maggiormente finora, per un motivo prettamente estetico e di eleganza ma più mi allontano dal tipo di fotografia glamour di cui parlavo prima più il sesso del soggetto inizia ad essere irrilevante. Non ho mai riflettuto su cosa volessi realmente raccontare fotografando le ragazze con cui ho avuto il piacere di collaborare finora, credo sia sempre stata un’azione molto spontanea la mia, simile per ognuna di loro. Quello che piuttosto ha fatto la differenza, a livello inconscio, credo sia il rapporto che ho con loro. Nel caso di Sara, con la quale ho un rapporto che ci lega da anni, è stato facile far emergere tratti intimi della sua personalità a differenza delle fotografie fatte a Marie, ragazza francese che per un anno ha studiato nella mia stessa università, o le prime a Lourdes a Venezia, in cui mi sono dovuto accontentare di evidenziare soltanto la loro femminilità a causa del rapporto al tempo ancora superficiale. A metà strada credo stia il caso in cui ho fotografato Lourdes per la seconda volta, a Madrid. Un anno dopo esserci conosciuti ho avuto l’ incarico di immortalarla, come artista questa volta quindi come Russian Red, per una coppia di bravissimi fashion designer venezuelani meglio conosciuti come WEARECAT. Il risultato per quanto mi riguarda è stato più che soddisfacente nonostante il profilo umile dell’intero progetto e il fatto che fosse la prima volta in cui mi trovavo a fotografare seriamente in interno, il tutto servendomi solo di un cavalletto e di luce naturale in una giornata di pioggia. Dalla mia avevo però un rapporto di amicizia con Lourdes cresciuto nei mesi precedenti che mi ha dato quella confidenza per sfruttare al meglio la situazione, gli splendidi abiti di Ce e Tico, un fotografo venezuelano in visita in Europa, David, che si è rivelato di grande aiuto oltre che un amico da importare e in ultimo la perfetta location che mi ha insegnato a capire il reale valore in fotografia del contesto. E poi c’è Ylenia che per la mia fotografia è tutto, l’ho raccontata diverse volte in altrettanti modi, anche se ultimamente la riduco a mero oggetto tra gli oggetti, unità di misura della realtà. Resta in ogni caso un soggetto affascinante che ho iniziato a fotografare anche per imparare a conoscere meglio umanamente in una sorta di vigliacco gioco di spionaggio da dietro un obiettivo, fotografa con cui mi confronto quotidianamente nel tentativo di migliorarci a vicenda, maestra che mi ha insegnato a comporre adeguatamente un’immagine quando io andavo ancora troppo di cuore e compagna di avventura nel vagare alla ricerca di nuovi siti da fotografare. Insomma, colei che mi ha dato l’indispensabile per continuare in questo percorso e continuare bene.

C’è una tua foto che mi ricorda uno scatto di Harry Callahan intitolato “Eleanor, Chicago, 1953” per la posizione centrale della figura femminile e i piani digradanti in secondo piano. E’ un’analogia voluta?
Assolutamente no. Non conoscevo questa fotografia, mi piace moltissimo quindi ti ringrazio e credo che sforzandomi riuscirei a trovare un’analogia con diverse altre mie fotografie, sarà la posizione centrale, sarà lo sguardo fisso in camera, il giocare con le geometrie.

Ritieni che sia dato sufficiente spazio agli artisti nei canali istituzionali? Come ritieni che si possano superare i limiti dell’arte ufficiale?
Non ho ancora l’esperienza sufficiente per comprendere il complicatissimo mondo dell’arte ufficiale senza contare che ignoro quali siano i relativi canali istituzionali. Fatta eccezione per un breve periodo di tempo in cui sono stato trascinato all’interno di situazioni come gallerie, curatori e concorsi internazionali che ho lasciato dopo poco perché per prima cosa non mi sentivo ancora pronto e in secondo luogo perché il tutto somigliava più che altro ad una grande catena di montaggio, la mia esperienza si limita soprattutto al web, strana creatura che va seguita costantemente per riuscire a ricavare per sé un po’ di arrosto in mezzo al tanto fumo. Posso dunque dire che sarebbe stimolante se la creatività presente in rete venisse maggiormente presa in considerazione come serbatoio della realtà, specialmente in Italia.

Quali sono i tuoi prossimi impegni e progetti?
Il mio impegno principale in questo momento è la tesi di laurea che mi terrà occupatissimo fino alla fine dell’estate. Prossimamente non sarò molto attivo dal punto di vista fotografico anche se ho qualche idea in mente che spero di poter realizzare nei momenti di pausa. A questo si aggiunge un lavoro di reportage per l’ università di Trento che ha come soggetto un vecchio e interessantissimo complesso industriale che verrà a breve demolito e riqualificato. Ho il compito di documentare l’esistente, il cantiere e il lavoro finito in vista di una mostra e relativa pubblicazione. In rete i miei lavori hanno tutti come protagonista la persona ma contemporaneamente da più di un anno fotografo anche diverse architetture e spazi di vario genere, nonostante l’unica cosa uscita dal mio computer sia un lavoro su Barcellona andato in mostra l’estate scorsa all’università di architettura di Parigi Val-de-Seine. Per quanto riguarda gli impegni ho da poco terminato un’esposizione personale dal titolo “L’esercizio delle distanze” presso Kobo Shop a Udine, a breve dovrebbe iniziare un’altra esposizione personale dal titolo “Mover” in un nuovissimo spazio a Trento. Per il resto aspetto di poter mettere entrambi i piedi nel mondo vero e capire come salvarmi.

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Un commento a “Vis-à-vis #26: Alessandro Calabrese”

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