18 giugno 2010 0

Vis-à-vis #27: Pierluigi Riccio

pubblicato da Sara in Artisti, Fotografia, Interviste

Il Vis-à-vis di oggi ha per protagonista Pierluigi Riccio, art director di professione, molisano di origine ma, dopo vari spostamenti, trapiantato a Roma. Si è accostato alla fotografia molto presto e oggi predilige i tempi lenti di una medio formato come la Hasselblad. Diverse le fonti di ispirazione dei suoi scatti meditati, ciascuno dei quali non è che un tentativo, innato nell’uomo, di rispondere sempre alle stesse domande, talvolta sbagliate. Per spiegare lo spirito delle sue fotografie servono poche parole, le stesse che ha usato lui: “solitario e distante, composto e ignoto, possibile”.

Chi è Pierluigi Riccio? Dove e quando è nato? E dove si trova ora?
Sono un art director, lavoro in un agenzia pubblicitaria, produco rumore e la fotografia è la mia redenzione. Sono nato nel 1975, ho vissuto a Isernia dove ho cominciato ad usare la macchina fotografica, poi c’è stata Napoli dove ho iniziato a studiare la filosofia, Bologna dove ho conosciuto mia moglie e da dieci anni vivo a Roma dove tra poco meno di un mese nascerà mio figlio.

Qual è stata la tua formazione e come ti sei avvicinato alla fotografia? Qual è il suo ruolo nella tua vita?
Mi sono avvicinato alla fotografia nel 1989, era appena crollato il muro di Berlino, un giorno ho incontrato un gruppo di polacchi, portavano con loro cimeli di un mondo perduto e un freddo e malinconico esotismo d’oltre cortina, oltre ad una Zenit 122, la mia prima macchina fotografica. Ho cominciato ad andare in bicicletta e a fotografare quello che i miei occhi ritenevano interessante, con un gruppo di amici stampavamo le foto usando un vecchio ingranditore, con il tempo poi fotografare è diventato una sorta di punteggiatura dei giorni.

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Chi i tuoi maestri?
La luce che redime, i film di Tarkovsky, Sara, mia moglie, i libri di Boris Vian, Sunny, il mio cane che mi appare nei sogni e mi parla, la campagna, gli sporchi controluce di John Cassavetes; le foto il più delle volte sono un’intuizione, una scommessa degli occhi sulla mente.

Alcune delle tue foto hanno un qualcosa di misterioso, non totalmente spiegabile. Quali sensazioni vuoi comunicare attraverso le tue immagini?
Mi piace quel momento in cui nel frame tutto è in ordine, solitario e distante, composto e ignoto, possibile.

Descrivi il tuo lavoro. Quali macchine fotografiche usi? Tra analogico e digitale cosa scegli?
Mi rigiro i pensieri nella testa, appunti, visioni, molte volte non me ne faccio nulla, altre volte invece li fermo sulla pellicola.  Ho una predilezione per il medio formato, l’Hasselblad è la mia preferita: è pesante, ha bisogno di tempi lunghi e io sono una persona lenta.  Negli ultimi tempi però sto rivalutando l’urgenza delle point and shoot 35mm: uso spesso una Olympus XA3 e una Yashica T5d. In passato ho molto amato la LCA.

Quanto tempo passa dall’ideazione alla realizzazione di una delle tue fotografie? Ragioni per serie, come quelle in cui sono divise le tue foto all’interno del tuo sito, o per singoli scatti?
Devo ancora scattare foto pensate nel 2005, mi piacerebbe dire che si scatta sempre la stessa foto, come si scrive sempre lo stesso libro, come si suona sempre lo stesso pezzo, perchè l’uomo si pone sempre le stesse domande e le risposte invece spesso spalancano altre porte. Non credo di essere immune da questo meccanismo, in più a volte faccio le domande sbagliate.

Sfogliando il tuo stream su Flickr si nota che hai viaggiato molto. Quale luogo è riuscito ad ispirarti maggiormente?
Ogni luogo fuori il tuo luogo è fonte di ispirazione, è una reazione innata, riconosci la discontinuità e ricominci ad osservare, quando si viaggia il velo della routine cade e gli occhi sono pronti per rivedere luci e colori che la quotidianità impediva di vedere: New York, Los Angeles, Parigi come la minuscola isola di Arran in Scozia.

Hai affermato: “Una foto al giorno leva il medico di torno”. Vuol dire che ogni giorno scatti almeno una foto o che ogni giorno dedichi parte del tuo tempo ad osservarne una?
È il mio punto di vista terapeutico sulla fotografia, agisce come un neurotrasmettitore, induce euforia, senso di aumentata socialità ed autostima, aumento della temperatura corporea, ti fa sentire vivo.

Ritieni che sia dato sufficiente spazio agli artisti nei canali istituzionali? Come ritieni che si possano superare i limiti dell’arte ufficiale?
All’arte ufficiale e al suo superamento io preferisco le aree di sosta attrezzate.

Quali sono i tuoi prossimi impegni e progetti?
Sto organizzando un lavoro sulle storie che si incrociano, sto indagando le possibilità di un legame tra persone e luoghi lontani fra loro e per la prima volta ho deciso di fare sul serio. A giugno poi le cose si faranno ancora più serie e quello sarà il vero impegno, oddio sta per nascere mio figlio.

[E chissà che non sia già nato... In questo caso AUGURI!]

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