15 settembre 2010 0

Vis-à-vis #30: Elisa Anfuso

pubblicato da Alessia in Artisti, Grafica, Pittura

L’estate volge al termine e noi siamo di nuovo qui, pronti e carichi, per un altro anno insieme ricco di eventi e nuove giovani proposte dal mondo dell’arte per continuare ad animare le giornate che verranno. Art Rehab riprende il suo percorso con l’inmancabile rubrica Vis-à-vis che quest’oggi presenta Elisa Anfuso, artista catanese che con le sue opere ci presenta un mondo di favola, ricco di sorprese, storie di sogno fatte di origami, fili che si intrecciano tra la vita di tutti i giorni, scene ad un unico atto spunto di riflessione. Vediamo di conoscerla un pò meglio.

Chi è  Elisa Anfuso? Dove e quando è nata? E dove si trova ora?

Sono nata a Catania nel 1982 e vivo e lavoro ancora qui. Magari un giorno andrò via. Ho un animo tendenzialmente “crepuscolare” e so che starei meglio in città come Torino, o Praga, meno assolate, più decadenti.

Qual è stata la tua formazione e come ti sei avvicinata all’arte in generale e al genere che pratichi in particolare?

L’arte mi è sempre sembrato il modo più naturale per dare un senso e un ordine ad ogni cosa. Per essere consapevole. Non ricordo un momento, un incontro, un aneddoto che abbia segnato l’inizio del mio percorso artistico. E’ come se sapessi sin dall’inizio cosa avrei voluto fare. In tutti i ricordi d’infanzia mi vedo mentre disegno, ad ogni ricorrenza il regalo era sempre una scatola nuova di colori. Nessuna scelta, ho solo dovuto un po impormi nei confronti di chi aveva altri progetti per me, ma la mia strada è sempre stata chiara: l’Istituto d’Arte, l’Accademia di Belle Arti, il Master, diversi stage di pittura e fotografia e poi l’incontro col mio gallerista, che mi segue da anni e mi ha sempre dato grande fiducia.

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Il cinema francese, Tarkovskij, Praga, Tim Walker e la persona che me li ha fatti conoscere. I miei diari. Le mie foto. Tim Burton e Terry Gilliam. Le poesie di Patty Smith. Il teatro dell’assurdo e il teatro Noh giapponese. Osservare la gente.

Quali sensazioni vuoi comunicare attraverso le tue opere?

Una pausa. Una domanda. Magari nessuna risposta. Un silenzio, un’emozione. Un ricordo celato o apparentemente perduto. Il frammento di una storia che può appartenere a mille altre storie.

Descrivi il tuo lavoro.

Nei miei racconti parlo di sogni, di chi li sogna e di quanto difficile sia sognarli. Parlo di consapevoli contraddizioni, di silenzi e deliri, di una precarietà che non appartiene a chi può volare, di un cuore che ha le sue cieche attese ingannevolmente rassicuranti, di un coraggio che può sempre salvarci. E gioco. Con le parole, i colori, il disegno, con ogni cosa. Perchè la dimensione ludica ci riporta ad una certa autenticità ma contemporaneamente ha un suggestivo potere straniante. Abbiamo una “stanza dei giochi” per ciascun pensiero, per ciascun sogno, abbiamo un rifugio e una prigione.

Quanto tempo impieghi per progettare e realizzare un’opera?

Delle volte capita che un’opera sia il risultato di pensieri su pensieri, un flusso che torna e ritorna su se stesso, si sviluppa in maniera latente e comincia timidamente a diventar racconto. Altre volte, semplicemente, l’opera è già lì. E’ come entrare in una stanza buia, accendere la luce ed aver tutto chiaro subito, senza attendere che gli occhi si abituino alla penombra. La vedo già finita. Capita spesso ma non smette di stupirmi. Il percorso dalla visione alla tela è piuttosto breve. E sembra essere ogni volta nuovo.

Le tue opere sono molto complesse e cariche di simbolismi, a volte palesati apertamente, altre più nascosti…come li interpreti?

Mi ha sempre affascinato il potere evocativo e narrativo dei simboli. La gru, quasi sempre presente, simboleggia i desideri, l’autenticità, la voglia di andare oltre, in una dimensione in cui non è tanto importante che si realizzino i sogni ma, semplicemente, che si possa sognare. Stanze e porticine troppo piccole per esser oltrepassate. E fili. Fili che simboleggiano i nostri legami, nel bene e nel male. Tutto ciò che ci stringe e ci costringe, che nasca da noi o fuori di noi. E ancora chiavi… che però non possono aprire alcuna porta. Reale e irreale si confondono e ci confondono. Matrioske che rimandano ad un meccanismo di scoperta e conoscenza sempre più profonda di se stessi. Oggetti della nostra infanzia, sedie che raccontano di chi si ferma e si lascia vincere o, al contrario, scarpette rosse per chi sa di dover andar via.

La figura umana è sempre presente, è per te un qualcosa che da all’osservatore un termine di paragone rispetto alla struttura complessiva dell’opera, oppure ne è il protagonista assoluto?

Protagonista. Non nella sua corporeità ma nella sua emotività, nel suo crescere a volte inconsapevole, fermarsi, poi crescere ancora, nascondersi e soprattutto rapportarsi a ciò che sta dentro e fuori. La sua fisicità è la sottile linea che demarca un al di qua da un al di là, li contrappone, li relaziona, permette loro di contaminarsi a vicenda e di comprendersi.


I tuoi mondi di sogno regalano alternative di favola alla vita quotidiana, rimanendo però sempre ancorati alla crudezza della realtà che ci circonda…ti potresti ritrovare nella similitudine con una moderna alice nel paese delle meraviglie?

Credo di si, almeno parlando di Alice non in termini di favola ma di dramma. Alice riesce a dar vita al mondo che ha sempre immaginato, o meglio un mondo fatto a misura della sua immaginazione, in cui tuttavia rimane intrappolata e scopre che persino lì è fuori posto, persino nel mondo da lei creato. Troppo grande, troppo piccola… addirittura la definiscono un mostro. Tutti ci sentiamo Alice ogni tanto. Anche nel piccolo mondo che noi stessi ci siamo creati, fatto di affetti, legami, abitudini.

Ritieni che sia dato sufficiente spazio agli artisti nei canali istituzionali? Come ritieni che si possano superare i limiti dell’arte ufficiale?

Credo che si potrebbe e si dovrebbe avere maggiore attenzione verso l’arte e che la questione vada posta innanzitutto nei termini di un “educare all’arte”, prima ancora che di possibilità. E siamo ancora molto lontani dal farlo. Arte ufficiale? Semplicemente penso non sussistano più le condizioni sociali, culturali e politiche per poter parlare di “arte ufficiale”.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Questo è stato, artisticamente, il mio anno più intenso. Questo mese inaugurerò una personale a San Gimignano, dal titolo “La mia ombra è lieve”. Per il resto ho già nuove idee sulle quali continuare a lavorare e vecchi progetti fotografici che vorrei riprendere. Non ho mai pensato a progetti a lungo termine. Dipingo per Amore e per un’ esigenza imprescindibile. Ciò che ne consegue anche per me è spesso una sorpresa.

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