Qualche tempo fa avevo segnalato su queste pagine Occhirossi, festival indipendente di fotografia, svoltosi dal 3 al 5 luglio all’interno del Forte Prenestino di Roma. Manifestazione organizzata in modo esemplare (peccato però per tutti i fotografi meritevoli che non hanno pensato di mettere a disposizione i loro biglietti da visita, non sempre si hanno a portata di mano carta e penna per segnare i nomi) e, naturalmente, molto suggestiva la distribuzione delle mostre nella lunga infilata delle celle sotterranee.
Tra le tantissime viste, le fotografie che hanno colpito più di tutte la mia attenzione sono state indubbiamente quelle di Samantha Marenzi, bianchi e neri intensi e poetici che raccontano il corpo attraverso una prospettiva non convenzionale, ispirata dalla danza e dal teatro. Riduttivo, peraltro, chiamarle semplicemente fotografie: proseguite nella lettura dell’intervista e scoprirete perchè. Per contattare Samantha, per farle i complimenti o informarvi sulle sue opere, potete mandarle un’email.
Dove e quando è nata Samantha?
Sono nata a Roma nel novembre del 1975.
Qual è stata la tua formazione e come ti sei avvicinata alla fotografia?
Ho avuto la fortuna di formarmi durante le scuole superiori. Ho frequentato l’Istituto statale per la Cinematografia e la televisione “Roberto Rosellini”, una scuola professionale che tra i vari indirizzi formativi ha la sezione fotografia. Quindi di fatto mi sono diplomata come fotografa nel 1994, e negli stessi anni ho iniziato la mia gavetta sia professionale che “creativa”. Da allora ho seguito diversi corsi e ho lavorato a lungo come stampatrice, organizzato e realizzato mostre in Italia e all’estero. Attualmente insegno tecnica fotografica e pratiche di camera oscura.
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
In realtà gli elementi che formano un immaginario sono molteplici e forse non tutti consapevoli. Tanta arte visiva, tanta letteratura. Nello specifico del mio lavoro degli ultimi anni protagonista assoluta è stata la danza, il butoh per l’esattezza. Ho seguito i primi laboratori con maestri italiani e giapponesi nel 1996, alcuni anni dopo ho fondato con altri sei danzatori un gruppo, ancora attivo, col quale organizzo una rassegna internazionale di danza butoh e realizzo spettacoli. Lios, questo il nome, non è una vera e propria compagnia. E’ più un gruppo di lavoro, sette danzatori solisti che condividono le pratiche del lavoro e della creazione di contesti. Con loro ho una grande intimità ed il privilegio di uno sguardo ravvicinato sulla loro danza. I loro corpi incarnano il mio immaginario, oppure quest’ultimo è il risultato delle visioni che loro, generosamente, mi regalano.
Quali sensazioni vuoi comunicare attraverso le tue opere?
Questo non lo so..le sensazioni sono qualcosa di estremamente soggettivo ed ognuno di noi di fronte ad un’immagine è “mosso” da qualcosa di diverso. Io non colgo squarci del mondo visibile ma tento di rendere visibile il mio mondo, e questo non necessariamente comunica qualcosa a tutti. Mi piacerebbe suggerire attraverso le immagini almeno un modo di osservazione, o meglio un tempo. Guardiamo tutto molto in fretta, fermarci ci sembra sempre uno spreco. Mi piacerebbe davvero generare una sorta di sospensione, il desiderio di restare un attimo lì, semplicemente ad osservare, al di là di ogni apprezzamento.
Descrivi il tuo lavoro e le tecniche che usi. In particolare come hai scoperto la tecnica della stampa su carta da acquerello?
La mia formazione è prettamente analogica. Soprattutto mi sono specializzata, fin dai primi anni, sulle tecniche di sviluppo e stampa manuale. Per me la fotografia e la camera oscura sono indissociabili. L’avvento del digitale mi ha messo in crisi, oltre ad aver coinciso con la scomparsa della mia professione di stampatrice. Con questo non voglio esprimere un giudizio negativo sulla fotografia digitale e sulla rivoluzione di tempi e costi che ha portato nel mondo professionale, semplicemente io mi sono resa conto che in quelle pratiche ero agevolata grazie alla mia formazione, ma non ero creativa. La manualità della stampa artigianale, il coinvolgimento del corpo intero nel lavoro di camera oscura, in questo trovo possibilità espressive. Quando il mio corpo è fermo davanti allo schermo si ferma anche la mia immaginazione. Non è così per tutti. Allora ho iniziato una ricerca all’indietro, di recupero di tecniche che appartengono al passato della fotografia. L’uso dell’emulsione fotografica su supporti non convenzionali non è una novità, è, appunto, un recupero, una tecnica che ti costringe alla pazienza, all’osservazione attenta delle immagini, poiché non tutte si adattano esteticamente a questo tipo di stampa, e allo studio dei diversi materiali. E’ stato un modo per ricominciare da capo, per imparare a stampare di nuovo. E ancora mi interessa che la manualità di questo processo sia esplicita, che il gesto sia visibile, e che la fotografia mostri la sua stratificazione nel tempo, dal momento dello scatto fino alla sua realizzazione finale.
Quanto tempo impieghi per ideare e realizzare una fotografia?
Molto. Ogni progetto ha una lunga gestazione, ed anche una fase di realizzazione lenta. La tecnica di stampa con l’emulsione, almeno nel modo in cui io la uso, mantiene un grado di casualità piuttosto alto. Anche questo mi piace molto. Faccio moltissime prove prima di arrivare alla definizione di un’immagine, che poi resta una copia unica. In questo senso la mia fotografia ha qualcosa in comune con le pratiche pittoriche.
Il corpo è la costante dei tuoi scatti, almeno quelli della serie Lios è un corpo. Qual è il suo significato per te?
Il corpo è per me il depositario assoluto ed unico della nostra storia, dell’immaginario, di altre possibilità di esistere. La riappropriazione del nostro corpo, la possibilità decisionale su questo al di là delle estetiche e delle convenzioni comportamentali egemoni ha per me un grande significato etico. Credo che siamo piuttosto inconsapevoli del potenziale espressivo e anche sociale che possediamo, tutti. Non parlo di provocazione, ma proprio di rivolta. Abitare il proprio corpo in modo cosciente è una possibile via di fuga all’omologazione, all’appiattimento del pensiero e della cultura, al business farmaceutico che domina la nostra paura della malattia. E’ un discorso complesso nel quale ovviamente c’entra anche l’estetica, ed è parte del mio percorso di ricerca, oltre che come fotografa, come danzatrice e come studiosa. Mi occupo infatti di Storia del Teatro, poiché il teatro è secondo me il territorio nel quale si è maggiormente sperimentata la potenzialità del corpo in azione. In Storia del Teatro svolgo un Dottorato di Ricerca all’Università Roma Tre.
Occhirossi è una vetrina alternativa. Ritieni che sia dato sufficiente spazio agli artisti nei canali istituzionali? Come pensi che si possano superare i limiti dell’arte ufficiale?
Occhirossi, oltre che una vetrina, è secondo me una grande opportunità in questo senso. Sono molto critica nei confronti dei canali ufficiali dell’arte, e della fotografia in particolare. Probabilmente i modi di superare i limiti, che talvolta sono delle vere barriere che non solo non lasciano spazio ma oscurano le realtà indipendenti, possono nascere da una spinta collettiva, dalla creazione di contesti in cui chi produce dei lavori si confronta e condivide l’isolamento. Il numero di persone coinvolte e la qualità delle proposte può creare delle alternative valide, di cui in questa città si sente davvero la mancanza. La storia dell’arte in parte ci insegna questo. Il confronto e lo scambio, ed il coraggio di immaginare altre modalità possibili, hanno amplificato la forza di realtà marginali che il mercato avrebbe ignorato o fagocitato. Parlo di mercato perché mi pare che la parola si addica a gran parte dei canali istituzionali.
Quali sono i tuoi prossimi progetti? Dove potremo ammirare di nuovo le tue fotografie?
Non ho appuntamenti definiti in vista. Probabilmente in autunno esporrò in uno spazio romano molto interessante a Testaccio col quale collaboro. Si chiama Rgb46, ed è un luogo molto stimolante che ha una galleria d’arte, una libreria tematica di arte ed architettura ed una caffetteria. Probabilmente lì verranno ospitate anche alcune mostre di Occhirossi, che nella sua seconda fase prevede di portare i lavori esposti nell’anteprima al Forte Prenestino in diversi luoghi intessendo una relazione tra la fotografia indipendente ed il territorio.
Tag: acquerello, corpo, danza butoh, Lios, Occhirossi, Roma, Samantha Marenzi
[...] Samantha Marenzi è una “vecchia” conoscenza di Art Rehab. Abbiamo incontrato la sua arte in occasione del festival indipendente di fotografia Occhirossi e abbiamo poi avuto la fortuna di intervistarla qualche tempo dopo. Torno a parlare di lei oggi per segnalarvi un’iniziativa interessante, ovvero un laboratorio di fotografia tenuto dalla stessa Samantha, strutturato per il momento in due incontri che si terranno presso Ars-Imago in via degli Scipioni 24-26 a Roma. Argomenti fondanti sono le tecniche di base della fotografia analogica e delle pratiche di camera oscura, definite come “il vocabolario di una possibile poesia”. [...]
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